13 Gen Kent Haruf e il grande affresco dell’inesorabilità della vita umana. Ritratto d’autore.
Quando scaviamo nella poetica di un autore, la curiosità di conoscere il suo
processo di scrittura si annida dietro ogni pagina. Quello di Kent Haruf era
davvero insolito. Usava una vecchia macchina da scrivere Underwood e una
carta gialla, molto particolare. Amava il contatto e il rumore dei tasti e
preferiva la macchina da scrivere al computer, per timore che una bella frase
potesse perdersi in una cattiva atmosfera. Indossava sempre un berretto che
gli copriva gli occhi, per non lasciarsi distrarre dalla punteggiatura,
dall’ortografia, dagli accapo: si bendava per vedere. Per dare vita a una
scena, era solito scrivere i suoi pensieri a spazio singolo per una pagina
intera. Poi, con una matita (amava le matite appuntite), aggiungeva e
cambiava. Successivamente batteva a macchina l’intera scena senza
berretto, con gli spazi raddoppiati, e passava il foglio a Cathy, la sua seconda
moglie, perché lo ricopiasse al computer. Oltre ad ascoltarlo e commentare
con delicatezza, Cathy lo proteggeva anche dalle interruzioni: nessuna
telefonata o visita dalle 8:30 fino a mezzogiorno.
Mi sembra ancora di averlo sotto le scarpe, il terreno arido di Holt.
All’orizzonte vedo i campi di yucca e grano sotto il sole impietoso di agosto.
Una volta che avrai guidato il furgone sulle stradine sterrate, in mezzo alla
campagna, una volta che avrai assaggiato la birra della taverna, ballato un
Tennessee Waltz e una volta che le sue storie si saranno impresse sulla tua
pelle, beh, vecchio mio (come direbbe uno dei suoi abitanti) non potrai più
fare a meno di tornarci, a Holt.
Kent Haruf nasce il 24 febbraio 1943 a Pueblo, Colorado. Figlio di un pastore
metodista e di un’insegnante, si laurea nel 1965 presso la Nebraska Wesleyan
University. Nella sua vita svolge diversi mestieri: bracciante agricolo, operaio
edile, infermiere, bidello, per diventare infine insegnante di scrittura creativa e
scrittore acclamato in tutto il mondo.
Haruf approda alla scrittura in età matura, a quarant’anni suonati, e nei
trent’anni successivi, fino alla sua morte avvenuta nel 2014, scrive
unicamente sei romanzi: Vincoli (1984), La strada di casa (1990), la Trilogia
della Pianura che racchiude i tre movimenti Canto della Pianura (1999),
Crepuscolo (2004), Benedizione (2013) e Le nostre anime di notte (2015),
divenuto una romantica e crepuscolare commedia cinematografica
interpretata da Jane Fonda e Robert Redford.
Storie tutte ambientate nella cittadina immaginaria di Holt, che l’autore
colloca in Colorado vicino a Denver.
È possibile che la topografia di Holt ricalchi quella di Yuma in Arizona, dove il
nostro scrittore ha vissuto gran parte della sua vita? Probabile, ma poco
importa. Quello che conta è che Kent Haruf ci riporta sempre a casa. Ogni suo
romanzo è far ritorno in un luogo familiare, in cui ritroviamo strade,
volti conosciuti, ma dove ci lasciamo anche sorprendere dai cambiamenti
e dai nuovi avventori giunti in città.
Gente semplice quella di Holt, a volte gretta, spietata e pettegola. Holt, un
luogo in cui tutti sanno di tutti, disegnato dall’autore sulle grandi pianure del
Sud più reietto e dimenticato. Holt, dove l’ordinario diventa straordinario grazie
a una penna capace di far emergere dall’oblio storie che diversamente sarebbero
scivolate tra le pieghe della Storia, come granelli di sabbia tra le dita.
Ma se è vero il pensiero melvilliano secondo il quale i posti più veri non si
trovano mai sulle carte geografiche, allora benvenuti in quel piccolo miracolo
letterario che è Holt, dove il quotidiano non viene elevato a metafora di altro,
ma presentato nella sua realistica spietatezza, in virtù di un’autenticità e una
lucentezza tali da tracciare un solco profondo nell’emotività del lettore.
Holt, con la sua terra arida ma che odora di vita. Quella vita ineluttabile che ci
fa desiderare e che ci attira verso l’illusione di una felicità che ci abbaglia per
un attimo, per scomparire all’improvviso e dissolversi in un orizzonte di
perdute speranze:
In cosa consiste la felicità? È un diritto, un dovere? La si può tenere? Se sì,
per quanto tempo? Sembra quasi che una risposta a tutto ciò sia un lusso
concesso solo a chi trova la forza di andare via di casa, per sempre. Chi
rimane o chi torna per mancanza di alternative è indissolubilmente legato al
destino di quella terra impietosa che è Holt. La felicità può mostrarsi, ma le
sue promesse non verranno esaudite perché ad averla vinta sarà sempre il
dovere. La felicità è piuttosto un’epifania: sempre vicina, sempre a un
chilometro da casa, tuttavia sfuggente ed effimera.
Haruf prende di petto quelle grandi tematiche che per molto tempo la
narrativa postmoderna non aveva avuto il coraggio di affrontare assurgendo
piuttosto l’ironia, il sarcasmo, il disincanto a strumenti interpretativi della realtà.
La Nascita, la Morte, l’Amore, la Giustizia irrompono nei suoi romanzi segnando
una cesura netta fra tutto ciò che si era scritto fino alla metà degli anni Ottanta
e tutto quello che è arrivato dopo e che ha reimparato ad occuparsi dei grandi temi dell’esistenza.
L’ambientazione stessa delle sue storie segna una rottura. In un momento in cui negli U.S.A. si parlava
unicamente di metropoli, da San Francisco a Manhattan (nemmeno New
York!), il nostro autore sceglie Holt: un angolino sperduto di uno dei paesi più
sperduti di tutti gli Stati Uniti.
Kent Haruf ha il dono di farci entrare in punta di piedi nelle vite dei suoi personaggi,
disegnati in una perfezione talmente “difettosa” da essere pienamente umani.
Ognuno è un universo tridimensionale, con la propria storia, la propria
psicologia, le proprie scelte e motivazioni. Tutti a loro modo subiscono le
durezze e la crudeltà di un’esistenza legata inesorabilmente alla terra e alla
famiglia, che come una maledizione non lascia tregua alla felicità, sacrificata
in virtù del dovere e del rispetto:
Quelli che l’autore ci offre sono lucidi ritratti umani, che nascono dalla
compassione e dall’amore. Un amore che si esprime nel libero arbitrio: i suoi
personaggi sono liberi di essere se stessi e di fare le proprie scelte. Scelte
verso le quali saranno comunque tenuti a prendersi una responsabilità, nel
bene o nel male.
Persino i “cattivi” non sono mai veramente tali. Non che sia lui a dircelo ma,
mostrandoci le loro debolezze e le loro ferite, affida a noi e alla nostra
umanità una qualche opzione di giudizio.
L’autore guarda con molto affetto i suoi personaggi femminili. Le donne nei
suoi romanzi sono portatrici di una forza d’animo e di una capacità di stare al
mondo che gli uomini non hanno:
I romanzi di Kent Haruf abbracciano un arco temporale piuttosto ampio:
dall’epoca dei pionieri con Vincoli, in cui assistiamo, in una sorta di ouverture,
alla fondazione di Holt, fino agli anni Ottanta con Le nostre anime di notte,
scritto a pochi mesi dalla sua scomparsa e pubblicato postumo.
Dall’esordio all’ultimo libro, assistiamo a una indiscussa evoluzione della sua
scrittura. Lo stile diventa progressivamente più asciutto, diretto, scarno, quasi
a voler arrivare alle ossa della natura umana, ripulendola da inutili orpelli: dire
sempre meno mostrando sempre di più. In questa capacità di non dire ma
mostrare, secondo la tecnica narrativa “show don’t tell”, risiede la potenza
dirompente della scrittura di Haruf. Lo stile diventa sempre più rarefatto, il
lessico si assottiglia:
Il segreto della sua scrittura è la semplicità. Una semplicità che attrae quei
lettori forti e raffinati, che tra le righe ne riconoscono il ricercato lavoro di
levigatura, e i lettori più occasionali, perché la sua lingua scarna risulta
accessibile ed efficace. Insomma, Kent Haruf piace propio a tutti. Ma attenzione,
semplice non significa banale. La sua prosa è talmente stratificata da
consentire diversi livelli di lettura: permette di perdersi in una trama
avvincente e allo stesso tempo, per coloro che vogliono guardare più a fondo,
addentrarsi in riflessioni più intime.
L’autore con il passare del tempo cambia il modo di scrivere, o meglio lo
affina, ma la sua voce rimane sempre la stessa, perfettamente riconoscibile in
tutti i suoi scritti.
Haruf è uno scrittore che resta appartato dalle mode. Lo dimostrano non solo
le tematiche trattate, ma anche i suoi tempi di scrittura ne sono un esempio.
In un’industria editoriale vorace, che richiede un libro ogni anno o al massimo
due per dare continuità a un successo, Haruf impiega dai cinque ai sei anni
per scrivere ogni romanzo. Unica eccezione è rappresentata da Le nostre
anime di notte che conclude nel giro di sei mesi, dal momento in cui gli viene
diagnosticata una malattia terminale fino a poco prima di lasciarci. Un senso
di urgenza pressante emerge nel suo ultimo lavoro, nel quale assistiamo a un
uso del tempo completamente diverso. Se nei primi cinque libri il tempo è
circolare, scandito dal susseguirsi delle stagioni, in Le nostre anime di notte,
questo tempo è inesorabilmente lineare. I due protagonisti, ormai anziani, non
hanno più molto tempo davanti, e questo ha ripercussioni sulla loro
psicologia e sulle loro decisioni. In questa urgenza percepiamo che è Haruf
stesso a sapere che il suo tempo si sta esaurendo.
Kent Haruf non è un autore consolatorio e non è nemmeno rassicurante. Gli happy
end non fanno da padroni, per intenderci. Ci parla di casa, di famiglia, di
relazioni. Osserva attentamente l’oscura natura umana in una narrazione intrisa di lucido realismo,
libero da prediche o giudizi. La sua grande capacità è quella di mostrare la cattiveria cui l’uomo
può tendere quanto al tempo stesso la tenerezza disarmante di cui può essere capace.
Le storie di Haruf profumano dei campi di yucca, di terra arsa dal sole. Hanno
il sapore del grano e il fascino del cielo stellato d’estate. Odorano di polvere e
di sangue, di destini ineluttabili. Ci sbattono in faccia senza pudore
l’inesorabilità della vita: la condanna di sé ad una esistenza durissima per un
risarcimento che non potrà mai avere fine, se non fino a quando la vita stessa
deciderà che sia arrivato il momento di chiudere i conti.