Kent Haruf e il grande affresco dell’inesorabilità della vita umana. Ritratto d’autore.

Kent Haruf

Kent Haruf e il grande affresco dell’inesorabilità della vita umana. Ritratto d’autore.

Quando scaviamo nella poetica di un autore, la curiosità di conoscere il suo

processo di scrittura si annida dietro ogni pagina. Quello di Kent Haruf era

davvero insolito. Usava una vecchia macchina da scrivere Underwood e una

carta gialla, molto particolare. Amava il contatto e il rumore dei tasti e

preferiva la macchina da scrivere al computer, per timore che una bella frase

potesse perdersi in una cattiva atmosfera. Indossava sempre un berretto che

gli copriva gli occhi, per non lasciarsi distrarre dalla punteggiatura,

dall’ortografia, dagli accapo: si bendava per vedere. Per dare vita a una

scena, era solito scrivere i suoi pensieri a spazio singolo per una pagina

intera. Poi, con una matita (amava le matite appuntite), aggiungeva e

cambiava. Successivamente batteva a macchina l’intera scena senza

berretto, con gli spazi raddoppiati, e passava il foglio a Cathy, la sua seconda

moglie, perché lo ricopiasse al computer. Oltre ad ascoltarlo e commentare

con delicatezza, Cathy lo proteggeva anche dalle interruzioni: nessuna

telefonata o visita dalle 8:30 fino a mezzogiorno.

 

“Non puoi aggiustare tutto, non ti pare? Ci proviamo sempre. Ma non ci

riusciamo.”

Le nostre anime di notte

 

Mi sembra ancora di averlo sotto le scarpe, il terreno arido di Holt.

All’orizzonte vedo i campi di yucca e grano sotto il sole impietoso di agosto.

Una volta che avrai guidato il furgone sulle stradine sterrate, in mezzo alla

campagna, una volta che avrai assaggiato la birra della taverna, ballato un

Tennessee Waltz e una volta che le sue storie si saranno impresse sulla tua

pelle, beh, vecchio mio (come direbbe uno dei suoi abitanti) non potrai più

fare a meno di tornarci, a Holt.

Kent Haruf nasce il 24 febbraio 1943 a Pueblo, Colorado. Figlio di un pastore

metodista e di un’insegnante, si laurea nel 1965 presso la Nebraska Wesleyan

University. Nella sua vita svolge diversi mestieri: bracciante agricolo, operaio

edile, infermiere, bidello, per diventare infine insegnante di scrittura creativa e

scrittore acclamato in tutto il mondo.

Haruf approda alla scrittura in età matura, a quarant’anni suonati, e nei

trent’anni successivi, fino alla sua morte avvenuta nel 2014, scrive

unicamente sei romanzi: Vincoli (1984), La strada di casa (1990), la Trilogia

della Pianura che racchiude i tre movimenti Canto della Pianura (1999),

Crepuscolo (2004), Benedizione (2013) e Le nostre anime di notte (2015),

divenuto una romantica e crepuscolare commedia cinematografica

interpretata da Jane Fonda e Robert Redford.

Storie tutte ambientate nella cittadina immaginaria di Holt, che l’autore

colloca in Colorado vicino a Denver.

È possibile che la topografia di Holt ricalchi quella di Yuma in Arizona, dove il

nostro scrittore ha vissuto gran parte della sua vita? Probabile, ma poco

importa. Quello che conta è che Kent Haruf ci riporta sempre a casa. Ogni suo

romanzo è far ritorno in un luogo familiare, in cui ritroviamo strade,

volti conosciuti, ma dove ci lasciamo anche sorprendere dai cambiamenti

e dai nuovi avventori giunti in città.

Gente semplice quella di Holt, a volte gretta, spietata e pettegola. Holt, un

luogo in cui tutti sanno di tutti, disegnato dall’autore sulle grandi pianure del

Sud più reietto e dimenticato. Holt, dove l’ordinario diventa straordinario grazie

a una penna capace di far emergere dall’oblio storie che diversamente sarebbero

scivolate tra le pieghe della Storia, come granelli di sabbia tra le dita.

Ma se è vero il pensiero melvilliano secondo il quale i posti più veri non si

trovano mai sulle carte geografiche, allora benvenuti in quel piccolo miracolo

letterario che è Holt, dove il quotidiano non viene elevato a metafora di altro,

ma presentato nella sua realistica spietatezza, in virtù di un’autenticità e una

lucentezza tali da tracciare un solco profondo nell’emotività del lettore.

Holt, con la sua terra arida ma che odora di vita. Quella vita ineluttabile che ci

fa desiderare e che ci attira verso l’illusione di una felicità che ci abbaglia per

un attimo, per scomparire all’improvviso e dissolversi in un orizzonte di

perdute speranze:

 

“La gente sa rendersi la vita infelice, disse Alene. […] Tutta la vita trascorre

nell’infelicità per un motivo o per l’altro, no?”.

Benedizione

In cosa consiste la felicità? È un diritto, un dovere? La si può tenere? Se sì,

per quanto tempo? Sembra quasi che una risposta a tutto ciò sia un lusso

concesso solo a chi trova la forza di andare via di casa, per sempre. Chi

rimane o chi torna per mancanza di alternative è indissolubilmente legato al

destino di quella terra impietosa che è Holt. La felicità può mostrarsi, ma le

sue promesse non verranno esaudite perché ad averla vinta sarà sempre il

dovere. La felicità è piuttosto un’epifania: sempre vicina, sempre a un

chilometro da casa, tuttavia sfuggente ed effimera.

Haruf prende di petto quelle grandi tematiche che per molto tempo la

narrativa postmoderna non aveva avuto il coraggio di affrontare assurgendo

piuttosto l’ironia, il sarcasmo, il disincanto a strumenti interpretativi della realtà.

La Nascita, la Morte, l’Amore, la Giustizia irrompono nei suoi romanzi segnando

una cesura netta fra tutto ciò che si era scritto fino alla metà degli anni Ottanta

e tutto quello che è arrivato dopo e che ha reimparato ad occuparsi dei grandi temi dell’esistenza.

L’ambientazione stessa delle sue storie segna una rottura. In un momento in cui negli U.S.A. si parlava

unicamente di metropoli, da San Francisco a Manhattan (nemmeno New

York!), il nostro autore sceglie Holt: un angolino sperduto di uno dei paesi più

sperduti di tutti gli Stati Uniti.

Kent Haruf ha il dono di farci entrare in punta di piedi nelle vite dei suoi personaggi,

disegnati in una perfezione talmente “difettosa” da essere pienamente umani.

Ognuno è un universo tridimensionale, con la propria storia, la propria

psicologia, le proprie scelte e motivazioni. Tutti a loro modo subiscono le

durezze e la crudeltà di un’esistenza legata inesorabilmente alla terra e alla

famiglia, che come una maledizione non lascia tregua alla felicità, sacrificata

in virtù del dovere e del rispetto:

 

“Certo che non è giusto. Niente in questa faccenda è giusto. La vita non lo è.

E tutti i nostri pensieri su come dovrebbe essere non servono a un cavolo, a

quanto pare. Tanto vale che tu lo sappia subito”.

Vincoli

Quelli che l’autore ci offre sono lucidi ritratti umani, che nascono dalla

compassione e dall’amore. Un amore che si esprime nel libero arbitrio: i suoi

personaggi sono liberi di essere se stessi e di fare le proprie scelte. Scelte

verso le quali saranno comunque tenuti a prendersi una responsabilità, nel

bene o nel male.

Persino i “cattivi” non sono mai veramente tali. Non che sia lui a dircelo ma,

mostrandoci le loro debolezze e le loro ferite, affida a noi e alla nostra

umanità una qualche opzione di giudizio.

L’autore guarda con molto affetto i suoi personaggi femminili. Le donne nei

suoi romanzi sono portatrici di una forza d’animo e di una capacità di stare al

mondo che gli uomini non hanno:

 

“Sei diversa da tutte le altre, sembra che la vita non ti abbia mai sconfitta o impaurita.

Sei sempre cristallina, qualunque cosa accada.”

Canto della pianura

I romanzi di Kent Haruf abbracciano un arco temporale piuttosto ampio:

dall’epoca dei pionieri con Vincoli, in cui assistiamo, in una sorta di ouverture,

alla fondazione di Holt, fino agli anni Ottanta con Le nostre anime di notte,

scritto a pochi mesi dalla sua scomparsa e pubblicato postumo.

Dall’esordio all’ultimo libro, assistiamo a una indiscussa evoluzione della sua

scrittura. Lo stile diventa progressivamente più asciutto, diretto, scarno, quasi

a voler arrivare alle ossa della natura umana, ripulendola da inutili orpelli: dire

sempre meno mostrando sempre di più. In questa capacità di non dire ma

mostrare, secondo la tecnica narrativa “show don’t tell”, risiede la potenza

dirompente della scrittura di Haruf. Lo stile diventa sempre più rarefatto, il

lessico si assottiglia:

 

«Voglio pensare di aver scritto quanto più vicino all’osso che potevo. Con

questo intendo dire che ho cercato di scavare fino alla fondamentale,

irriducibile struttura della vita, e delle nostre vite in relazione a quelle degli

altri».

Il segreto della sua scrittura è la semplicità. Una semplicità che attrae quei

lettori forti e raffinati, che tra le righe ne riconoscono il ricercato lavoro di

levigatura, e i lettori più occasionali, perché la sua lingua scarna risulta

accessibile ed efficace. Insomma, Kent Haruf piace propio a tutti. Ma attenzione,

semplice non significa banale. La sua prosa è talmente stratificata da

consentire diversi livelli di lettura: permette di perdersi in una trama

avvincente e allo stesso tempo, per coloro che vogliono guardare più a fondo,

addentrarsi in riflessioni più intime.

L’autore con il passare del tempo cambia il modo di scrivere, o meglio lo

affina, ma la sua voce rimane sempre la stessa, perfettamente riconoscibile in

tutti i suoi scritti.

Haruf è uno scrittore che resta appartato dalle mode. Lo dimostrano non solo

le tematiche trattate, ma anche i suoi tempi di scrittura ne sono un esempio.

In un’industria editoriale vorace, che richiede un libro ogni anno o al massimo

due per dare continuità a un successo, Haruf impiega dai cinque ai sei anni

per scrivere ogni romanzo. Unica eccezione è rappresentata da Le nostre

anime di notte che conclude nel giro di sei mesi, dal momento in cui gli viene

diagnosticata una malattia terminale fino a poco prima di lasciarci. Un senso

di urgenza pressante emerge nel suo ultimo lavoro, nel quale assistiamo a un

uso del tempo completamente diverso. Se nei primi cinque libri il tempo è

circolare, scandito dal susseguirsi delle stagioni, in Le nostre anime di notte,

questo tempo è inesorabilmente lineare. I due protagonisti, ormai anziani, non

hanno più molto tempo davanti, e questo ha ripercussioni sulla loro

psicologia e sulle loro decisioni. In questa urgenza percepiamo che è Haruf

stesso a sapere che il suo tempo si sta esaurendo.

Kent Haruf non è un autore consolatorio e non è nemmeno rassicurante. Gli happy

end non fanno da padroni, per intenderci. Ci parla di casa, di famiglia, di

relazioni. Osserva attentamente l’oscura natura umana in una narrazione intrisa di lucido realismo,

libero da prediche o giudizi. La sua grande capacità è quella di mostrare la cattiveria cui l’uomo

può tendere quanto al tempo stesso la tenerezza disarmante di cui può essere capace.

Le storie di Haruf profumano dei campi di yucca, di terra arsa dal sole. Hanno

il sapore del grano e il fascino del cielo stellato d’estate. Odorano di polvere e

di sangue, di destini ineluttabili. Ci sbattono in faccia senza pudore

l’inesorabilità della vita: la condanna di sé ad una esistenza durissima per un

risarcimento che non potrà mai avere fine, se non fino a quando la vita stessa

deciderà che sia arrivato il momento di chiudere i conti.



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